Il sol dell’avvenire

Regia di Nanni Moretti.
Con Nanni Moretti, Margherita Buy, Silvio Orlando, Barbora Bobulova, Flavio Furno.
Genere Drammatico, – Italia, 2023, durata 95 minuti.
Distribuito da 01 Distribution.

Sabato 13 maggio, ore 21.00
Domenica 14 maggio, ore 21.00
Martedì 16 maggio, ore 21.00

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Giovanni, regista italiano in ambasce tra una moglie in analisi e un produttore sull’orlo del fallimento, ha smesso di credere nell’avvenire. A immagine del suo protagonista, figura di prua dell’Unità e della sezione comunista del Quarticciolo, vuole ‘farla finita’ col mondo che avanza in direzione ostinata e contraria: la consorte ha deciso di investire su un giovane regista de-genere, la figlia di sposare un uomo (molto) più vecchio di lei, la sua attrice principale di improvvisare l’amore in un racconto politico e poi c’è Netflix che produce cinema in scatola.

Tra una canzone e un refrain, arriva in fondo al suo film, ambientato nella Roma del ’56, quella della nevicata storica, delle prime luci elettriche e delle sezioni comuniste in subbuglio dopo l’ingresso dei carri armati sovietici e Budapest. Dietro alle barricate della (sua) esistenza, risponde al fuoco nemico e resiste all’artiglieria amica ma finirà per arrendersi alla parte migliore di sé, conducendo una tribù di attori fedeli dove il sole sorge ancora e il vento finalmente si posa.

C’è un motivo ricorrente nell’opera di Nanni Moretti che Pierre Sky in un saggio postumo definiva “chant-contre-chant”. Non si tratta di una canzone usata a scopo illustrativo in un film ma di una sovrapposizione di voci, i personaggi riprendono il brano che ascoltano attraverso l’autoradio, il giradischi o il juke-box, collocati sovente al centro della scena.

La canzone è un processo narrativo che attraversa l’intera storia del cinema parlato ed è supportata da solidi riferimenti, Jacques Demy su tutti, ma in Moretti è onnipresente e costituisce il motore del suo cinema, del suo nuovo film. L’autore accorda la sua voce con la canzone, che risuona chiaramente con gli eventi che affronta il suo personaggio e coi ritornelli che conosciamo a memoria.

Fissato con le scarpe, pantofole e sabot esclusi, la Sacher e la Nutella, nutre un’ossessione altrettanto magnifica per la canzonetta e sogna un film nel film: una storia d’amore sulle note di motivi italiani. E allora Tenco ‘suona’ sulla dolce vita di un giovane Moretti incalzato dal vecchio che lo invita a scambiare l’aforisma sentenzioso di Michele Apicella con un bacio. Perché quella silhouette di spalle, che semina al vento pensieri e si concede digressioni a forma di interludi musicali, non è “il solito Moretti”.

Il sol dell’avvenire è la fine e l’inizio di qualcosa, una sorta di apoteosi (s)canzonata e struggente in cui l’autore materializza i suoi pensieri senza ostacoli, si lancia in brevi e squisite sfuriate contro la violenza al cinema, contro le piattaforme, i sabot, l’improvvisazione, Stalin, ridimensiona il compiaciuto sussiego, chiede alla moglie di non lasciarlo e all’improvviso si mette a cantare come in un film di Demy, a ballare, a tirare calci ad un pallone. Si lascia portare dalla musica e noi andiamo con lui, i suoi attori vanno con lui, girando come i dervishes turners di Franco Battiato.

Malgrado la loro distanza, i personaggi sono uniti dallo stesso movimento che la canzone infonde al film. Moretti canta per ripararsi dall’improvvisa oppressione, quella sensazione di minaccia e tristezza che il suo Giovanni cura con gli antidepressivi e la crema per il viso, canta per rimettersi al mondo, per finirla con la disillusione, per ‘volare’ sul presente lasciato dal passato, per dare risposte cinematografiche nuove a vecchie questioni, per intonare, nella mise en abyme, la solita domanda: “come essere comunisti” mentre i sovietici invadono l’Ungheria e la Russia l’Ucraina?

Tre piani dopo fa i conti con la perdita politica, con la sua vita, col suo cinema e la sua professione, con i vezzi e i vizi, le idiosincrasie e le paranoie. Quasi fosse stato costretto a girare “film difficili”, a parlare bene, a dire solo quello che gli piace dire (“Io non faccio film per il pubblico…”), a venire e stare in disparte o a non venire proprio, lascia gli ormeggi, cede la parola agli altri e cambia il finale con un “se”. Lo fa a tavola, dentro una delle sequenze più belle in cui il suo piccolo mondo (moglie, figlia, attori, domatori, nani e produttori…) si sente finalmente autorizzato a respirare, a esistere, a esprimere un’opinione. Un momento di comunione, quasi religioso, che Moretti mostra come un’ideale improbabile, utopico. Nanni non smetterà di cantare ‘sopra’, ma mai come adesso, dentro un musical politico che realizza “la storia del pasticcere trotzkista nell’Italia conformista degli anni Cinquanta” (Aprile), fa corpo con gli altri, con “una minoranza di persone”, certo. Mai come adesso misura la sua incapacità di affrontare la vita in coppia, di essere uno con gli altri, risolvendo la tensione tra voce ‘singolare’ e popolare.

Se in Caro diario era il sentimento unico della guarigione a fare di lui uno “splendido quarantenne”, ne Il sol dell’avvenire è la consolazione fulminea del ‘canto e controcanto’ a restituirgli la purezza originaria di un’illusione. E pazienza se il mondo è devitalizzato, se todo cambia, la città è cambiata, il cinema è cambiato, tutto è diventato volgare e stupido. Moretti affida al suo miglior personaggio comico (se stesso) il compito sbalorditivo di sorriderne comunque. Di prendersi la libertà di ridere di sé e degli altri, della malattia e della morte, di vivere al ritmo di 24 fotogrammi al secondo ma di girare un film ogni cinque anni, di verificare la sua evoluzione politica e di cercare le persone, deliberatamente fuori campo in Caro diario.

La voce off del diario intimo acquista ne Il sol dell’avvenire lo statuto di ‘corpo’ dietro al quale avvertiamo costantemente l’espressione incerta e fragile di una posizione esistenziale, quella di un artista e di un intellettuale che crede nel cinema. Un’arte meravigliosamente attrezzata per far sentire il movimento vitale del canto e della danza che materializza la gioia nello spazio e nel tempo, per i personaggi e per gli spettatori che li osservano sfilare lungo i Fori Imperiali. Una folla di attori e comparse che incarnano la nozione di popolo, un’immagine indissociabile dall’ideologia di sinistra, una parata che permette a “questo sentimento popolare” di esistere visivamente.

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