Il Colibrì

Regia di Francesca Archibugi.
Un film con Pierfrancesco Favino, Kasia Smutniak, Bérénice Bejo, Laura Morante, Sergio Albelli.
Genere Drammatico, – Italia, 2022, durata 126 minuti.
Distribuito da 01 Distribution.
Consigli per la visione di bambini e ragazzi: +13

Venerdì 21, ore 21.00
Sabato 22, ore 21.00
Domenica 23, ore 21.00
Martedì 25, ore 21.00

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La vita di Marco Carrera, medico e padre di famiglia, scorre su binari apparentemente tranquilli, in realtà è irta di percorsi paralleli, coincidenze mancate, occasioni non colte e strade non prese. La moglie Marina tradisce il marito compulsivamente e lo accusa di avere una relazione con Luisa Lattes, una donna italofrancese conosciuta al mare in gioventù. E ha ragione, perché da sempre Marco intrattiene con Luisa un rapporto mai consumato, di quelli che la realtà non può contaminare ma che alimentano un desiderio ostinato e una passione segreta. Completano il quadro famigliare la figlia di Marco e Marina, Adele, il fratello di Marco, Giacomo, il ricordo della sorella Irene morta a 24 anni, e due genitori eternamente conflittuali ma incapaci di vivere lontani. In mezzo a loro Marco fa come il colibrì: sbatte forsennatamente le ali per rimanere fermo allo stesso posto, mentre intorno il mondo e i rapporti inevitabilmente cambiano.

Il personaggio di Marco Carrera, protagonista del best seller “Il colibrì” di Sandro Veronesi, è la sintesi di una mascolinità fatta di indecisione e attesa, di desiderio di “non far male a nessuno” e dunque di una passività in qualche modo colpevole (e certamente gravata da sensi di colpa).

In questo senso è erede di tanti testimoni silenziosi della propria esistenza, come “Giorgio” de “Il giardino dei Finzi Contini” o Marcello de “Il conformista”, e con quei romanzi (e film) condivide un ambiente borghese ricco di ipocrisie e povero di slanci autentici. Ma fra il romanzo di Veronesi e il film di Francesca Archibugi, scritto insieme a Francesco Piccolo e Laura Paolucci, sembrano viaggiare (anche loro) su binari divergenti: da una parte l’insondabilità del caso declinata come architettura costantemente fallace della vita; dall’altra il desiderio di far comunque “tornare tutto”, riconducendo una vita di occasioni mancate e scherzi del destino in una costruzione rotonda dove ogni evento deve acquisire comunque una sua compiutezza narrativa.

Per contro la frammentazione continua della linea temporale, che sulla pagina scritta era meno frenetica e più esemplificativa della visione incompleta del mondo di Marco, nel film crea confusione e ostacola la possibilità di provare empatia verso i singoli personaggi, che appaiono e scompaiono dalla vita di Marco mantenendo lo spettatore in superficie, come se stesse osservando una saga con troppe fuggevoli comparse: in questo senso la metafora del plastico costruito dal padre di Marco, che imbalsama ogni componente della famiglia in una figurina da diorama, è emblematico, non (come era probabilmente nelle intenzioni) della fissità (e falsità) di certi ruoli domestici borghesi, ma della impossibilità del pubblico di vedere in loro creature di carne, ossa e reali sentimenti.

Il cast fa del suo meglio per ottenere l’effetto opposto, e laddove alcuni attori di razza – Pierfrancesco Favino nel ruolo del protagonista, ma anche Laura Morante in quello di sua madre, Berenice Bejo nei panni (fortemente sacrificati) di Luisa e Alessandro Tedeschi in quelli (ridotti veramente all’osso) di Giacomo adulto – riescono a iniettare vita e vibrazione nei loro personaggi, altri oscillano fra esagerazioni interpretative e rigidità espressiva.

La presenza di Nanni Moretti è addirittura straniante, a tratti quasi parodistica, e porta lo spettatore fuori dal racconto ad ogni apparizione. Per contro tutti i bambini in scena riescono ad essere naturali e credibili, e questo è sempre stato un grande talento di Archibugi: scegliere, e poi lasciare cinematograficamente liberi, i minori in scena.

Il pubblico probabilmente risponderà comunque a questo cast stellare e all’abilità filmica della regista, sempre più brava dal punto di vista tecnico e sempre più capace di interpretare l’estetica di un benessere che ormai, per molti, fa parte solo dell’immaginario cinematografico. Ma l’essenza dolente del romanzo di Veronesi, il suo implicito elogio del rimpianto, lasciano nella trasposizione filmica il posto ad una costruzione forzatamente ricompattata in una struttura da romanzo d’appendice: un plastico altoborghese cui manca un respiro autentico di vita, un brivido di emozione non irrigidito dall’artificio della messinscena.

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